Abbiamo dunque appena
visto che il diritto d’autore, in quanto permeato dai principi del diritto privato classico,si conforma ad una libera
disponibilità delle prerogative dell’autore, o per lo meno di quelle patrimoniali. Tuttavia argomentazioni di
carattere per lo più economico hanno svilito questa libertà e hanno portato l’autore ad una posizion edipassivitàe
di debolezza contrattuale, così da dover necessariamente favorire l’intervento di soggetti intermediari e
predisporre dei meccanismi di predefinizione ed incanalatura dei rapporti contrattuali legati al mondo dell’impresa
culturale.
La giustificazione di un simile approccio era stata a suo tempo basata sulla supposizione che “di regola
l’autore non è in grado di esercitare direttamente i suoi diritti, almeno non nel senso di riprodurre l’opera, di
distribuire gli esemplari e di compiere le varie attività attraverso cui l’opera viene comunicata al pubblico.”
Bisogna però iniziare ad ammettere che questa impostazione tradizionale non hapiù unfondamento assoluto inun
panorama di comunicazione come quella che abbiamo fin qui diffusamente delineato.
D’altronde, allo stesso modo in cui viene garantito a livello costituzionale il diritto alsingolo utentedipoter
acquisire delle conoscenze che possono essere utili alla collettività (diritto ad informarsi), diriflesso un’identica
garanzia di matrice costituzionale è garantita (e dev’essere garantita) a coloro che vogliano trasmettere con la
massima libertà le loro idee creative (diritto ad informare). L’utente di un servizio d’informazione o di
arricchimento culturale deve avere la possibilità di scegliere liberamente nella vasta offerta che caratterizza il
nuovo mercato derivante dalla comunicazione multimediale;deve essere libero discegliere fra informarsio non
informarsi, fra pagare molto o poco e quindi fra avere un servizio più efficiente o uno più scadente,fravedere una
televisione pubblica e una televisione privata, fra collegarsi ad un serveritaliano o un server straniero ecc.
Allo stesso modo, però, anche gli operatori attivi del nuovo sistema globale di comunicazione, intesi come i singoli
operatori (gli autori, i giornalisti, gli artisti) e non le imprese delsettore, devono poterscegliere liberamente come
distribuire le loro creazioni,se a pagamento o gratuitamente,se in formato materiale o in formato digitale,sesu
supporto interattivo o su supporto statico ecc.
In pratica, se un musicista vuole distribuire una sua canzone liberamente su Internet deve aver la
possibilità di usare un programma di file-sharing e inserire l’opera nel formato a lui più congeniale e
rilasciarla con permesso di utilizzo o anche permesso di copia o addirittura con permesso di modifica. Ma se
a proprio si rende illecito a priori l’uso di tali programmi, ad esempio per preservare (per altro
legittimamente) il mercato discografico dalla pirateria, si rischia di soffocare eccessivamente anche la
possibilità di questi singoli utenti-autori che rappresentano una buona fetta della comunità globale. E ancora,
se quel musicista vuole diffondere la canzone su un supporto materiale deve essere libero di scegliere di
gestire i suoi diritti in modo autonomo e di distribuire i CD o le cassette indipendentemente dalla
vidimazione del supporto da parte della SIAE (art. 181 bis l.a.)
Una normativa che dedichi la sua attenzione ad un controllo capillare della diffusione delle opere ad
esempio rendendo indissolubile il legame fra opere e supporti materiali oppure attribuendo ad organi come la
SIAE funzioni che eccedono il tradizionale aspetto della gestione collettiva dei diritti sono destinate ad una
scarsa compatibilità con la realtà emergente e inarrestabile delle comunicazioni peer-to-peer. Bisogna
piuttosto ricreare “un collegamento diretto fra il titolare dei diritti e gli utenti e incrementare i meccanismi
contrattuali che governano le condizioni di accesso alle opere”.
Come già detto, è necessario riportare l’attenzione della tutela sulle caratteristiche dell’opera e sulle
prerogative dell’autore, inaugurando una politica legislativa che eviti di attribuire eccessiva pervasività nei
rapporti contrattuali a soggetti che fondano il loro intervento su interessi puramente economici e che
necessariamente si esprimono per una concezione conservatrice della proprietà intellettuale.
Il diritto d’autore (e soprattutto il copyright) e tutto l’apparato dell’editoria e della produzione di
opere, se impostati su una base di rigidità e centralizzazione nella gestione dei diritti, sono destinati a
collassare in un mondo come quello attuale delle comunicazioni di massa.
Internet è il media decentrato
per eccellenza, in cui tutti possono essere autori ed editori, quindi il diritto d’autore per armonizzarsi a questa
realtà inestirpabile e per non uscirne travolto, deve sapersi adattare a questa nuova compagine di soggetti ed
interessi. Le nuove scelte di politica legislativa dovrebbero cercare di incoraggiare tale decentralizzazione e
incentivare il più possibile la formazione di un sistema basato sulla contrattazione diretta dei diritti sulle opere e sui servizi ad esse relativi: ad esempio creando dei
database in cui sia possibile conoscere con precisione le caratteristiche delle opere e il loro regime di tutela,
oltre che risalire al relativo autore ed eventualmente contrattare i termini d’uso dell’opera.
O comunque, pur senza riformare l’intera impostazione del diritto d’autore internazionale, sarebbe
opportuno un generale allentamento della rigidità di tale tutela, eventualmente abbreviando la durata dei diritti di utilizzazione de dd elevando gli standard minimi di creatività affinché un'opera sia coperta da copyright. Tutto ciò deve inoltre essere
concepito necessariamente in un’ottica di armonizzazione delle discipline internazionali, possibilmente con
un avvicinamento da parte delle politiche legislative di common law al modello di proprietà intellettuale
europeo (e non viceversa come è successo negli ultimi decenni).
In attesa di simili auspicabili sviluppi, il copyleft, nei modi e nelle forme delineati in questo lavoro di
ricerca, si pone come una legittima e interessante prospettiva per un’informale innovazione dei criteri di
fondo che ispirano la diffusione della cultura e della creatività nella cosiddetta società dell’informazione.
Si introduce così un altro aspetto centrale
dell’impulso innovativo derivante dall’avvento del copyleft, cioè l’esigenza di rifocalizzare l’attenzione del
diritto d’autore sulla tutela della opera e della creatività del suo autore, contro una sempre più marcata
tendenza alla tutela delle altre attività di tipo imprenditoriale concernenti la diffusione dell’opera.
Per comprendere al meglio la questione bisogna ricollegarsi a quanto abbiamo detto poco fa a
proposito delle diverse impostazioni del copyright secondo common law e del diritto d’autore secondo civil
law e soprattutto a proposito della diversa sensibilità nei confronti degli aspetti patrimoniali e morali del
sistema di tutela.
Ci soccorre nella riflessione un passo di Paolo Spada che cristallizza al meglio la situazione
di disparità:
“L’enfasi che gli ordinamenti continentali danno alla personalità creatrice dell’autore fa sì che il
diritto d’autore si presenti come modalità di tutela di interessi tipicamente antindustriali:
dell’interesse dello scrittore contro l’editore, dell’interesse dell’autore di lavori drammatici
contro l’impresario teatrale.
Diverso è l’approccio del diritto anglosassone […]. Piuttosto che alle ragioni degli autori
l’esperienza giuridica anglosassone sviluppa una forte sensibilità alle ragioni degli editori e, poi,
degli altri intermediari imprenditoriali nella fruizione estetica dell’opera.” Questo panorama d’altronde, con l’ingigantirsi del business legato all’editoria e alla comunicazione
multimediale e con il conseguente aumento degli interessi economici in gioco, ha subito le già citate
distorsioni sulla funzione del copyright, trasformando quest’ultimo in certi casi in una “arma impropria”
nelle mani dell’imprenditoria per controllare capillarmente tutto il mercato della comunicazione.
Oltre tutto,
tale distorsione si è man mano ripercossa sui sistemi continentali che, benché si reggano su una diversa
concezione del diritto d’autore, rientrano in un unico grande mercato occidentale in cui gli interessi
economici sono troppo rilevanti (e tali da creare delle vere e proprie lobby di potere).
Non è un caso che gran parte delle scelte di politica legislativa dei paesi europei si sia sempre di più
ispirata ai modelli proposti dalla legislazione statunitense: si consideri l’esempio più emblematico del
parallelismo esistente fra il DMCA (U.S.A., 1998) e la EUCD (Comunità Europea, 2001). Ricordiamoci,
infatti, che gli U.S.A. sono il fulcro di tutta l’industria cinematografica, informatica e discografica mondiale:
quindi gli interessi della Disney, della Microsoft o della Sony Records non possono fare a meno di essere
anche quelli della cinematografia, dell’informatica e della produzione musicale europee.
E’ sulla base di questa realtà evidente che si è spesso parlato di un diritto d’autore trasformato in un
diritto degli investitori e di conseguenza di un diritto nato principalmente per la tutela delle opere trasformato
in un diritto mirato principalmente alla tutela degli investimenti ad esse connessi.
Così si esprime
inequivocabilmente Federica Gioia in un saggio del 2002 in cui, riferendosi proprio ai cambiamenti nel lato
soggettivo derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni, dice: “Non stupisce allora che al legislatore
europeo sia stato rimproverato di aver trascurato gli interessi degli autori e di averli sacrificati alle esigenze e alle pressioni dei titolari dei diritti connessi. Nemmeno stupisce la segnalazione dell’avvento di un ‘diritto
imprenditoriale d’autore’ del quale la direttiva 2001/29 [cioè la EUCD] costituirebbe il primo atto.” Di fronte a questo panorama delicato e - per così dire - patologico, ecco che il copyleft, nel senso di
fenomeno sia giuridico che culturale, si presenta come una ‘salutare valvola di sfogo’ che permette agli
autori di recuperare le loro naturali prerogative e di riportare ad una posizione più equilibrata l’ago della
bilancia della gestione dei diritti. E questo è possibile e legittimo in nome dei principi di diritto d’autore e in
generale del diritto privato che garantiscono al titolare dei diritti la totale libertà e autonomia nelle scelte su
come gestire l’aspetto patrimoniale della sua opera. Normative che irrigidiscono il mercato delle creazioni
intellettuali costringendo gli autori a percorrere determinate vie per diffondere le proprie opere sono da
ritenere lesive di tali principi cardine.
Il copyleft, a dispetto di normative che tendono sempre più al controllo dei formati e delle copie delle
opere, vuole riaffermare queste libertà che sono nate e devono rimanere nella libera disponibilità dell’autore:
“l’autore acquista a titolo originario […] i diritti esclusivi di utilizzazione […].
Tali diritti gli consentono di
controllare l’utilizzazione dell’opera, decidendo se e in che modo utilizzarla o farla utilizzare, e quindi di
trarre profitto dalla stessa e di soddisfare gli altri interessi patrimoniali, personali o ideali, connessi con la
divulgazione dell’opera.” Grazie a questo fenomeno spontaneo si può dunque parlare di un ritorno ad un
vero diritto d’autore che si occupa della tutela delle opere e dei diritti degli autori, piuttosto che di un diritto
d’autore che si preoccupa della tutela del mercato della creatività: cioè di un ritorno a quello che potremmo
chiamare un diritto d’autore “puro”.
Le argomentazioni qui presentate vengono efficacemente cristallizzate nel preambolo della licenza Art
Libre, che – come abbiamo già rilevato – essendo di origine francese denota una maggiore sensibilità ad
alcuni aspetti peculiari del diritto d’autore classico di matrice continentale. Vi si legge appunto: “Questa
licenza non ignora affatto i diritti d’autore, anzi li riconosce e li protegge. Essa ne riformula lo spirito
consentendo al pubblico di fare un uso creativo delle opere d’arte. […] L’intenzione è di rendere l’opera
accessibile e permettere l’utilizzo dei suoi contenuti da parte di più persone possibili […] nel rispetto degli
autori con il riconoscimento e la difesa del loro diritto morale . […] La ragione
essenziale di questa licenza Art Libre è promuovere e tutelare l’esercizio dell’arte libero dalle regole imposte
dall’economia di mercato.”
L’interrogativo da porsi è dunque se il diritto d’autore così come si è evoluto negli ultimi decenni, quindi
sempre più in rispondenza a scelte di politica economica, stia veramente rispettando gli equilibri fra i vari
interessi in gioco oppure se stia solamente irrigidendo il mercato della creatività e della conoscenza.
In quest’ultimo senso si esprime ovviamente un personaggio come Stallman che, nel suo saggio
“L’interpretazione sbagliata sul copyright: una serie di errori”, fondando le sue teoria su principi di
matrice costituzionale e giurisprudenziale, sostiene: “[…] il copyright esiste a beneficio degli utenti, non
nell’interesse degli editori o degli autori.”; successivamente riporta il dettato dell’art. 8 sez. 1 della
Costituzione U.S.A secondo cui “il Congresso avrà il potere di promuovere il progresso della scienza e delle
arti utili, garantendo per periodi di tempo limitati ad autori e inventori il diritto esclusivo ai rispettivi testi
scritti e invenzioni.”
Da ciò l’hacker prende le mosse per sottolineare che nel corso degli ultimi decenni gli
intenti del costituente americano abbiano subito una sempre maggior distorsione in ossequio alle esigenze
imprenditoriali del mondo dell’editoria prima e della comunicazione multimediale poi.
Inoltre prospetta tre errori basilari nell’individuazione del fondamento giuridico del copyright. Il
primo errore sarebbe la ricerca di un equilibrio fra gli interessi: Stallman è contrario a tale impostazione, che
abbiamo visto essere per certi versi la prima ratio del sistema di copyright: risulterebbe infatti palese - a suo
dire - che l’intenzione del costituente fosse solo ed esclusivamente la promozione del progresso a favore
della collettività degli utenti, senza alcun compromesso di tipo economico. Il secondo errore riguarderebbe il
privilegio attribuito dal diritto americano al solo aspetto patrimoniale e commerciale della creatività; il terzo
sarebbe quello di voler ottenere un incentivo della creatività massimizzando il potere degli editori.
E’ evidente che questa posizione radicale dipende in gran parte dal ruolo pseudo-politico di una figura
rappresentativa come Stallman portavoce a livello mondiale delle esigenze della comunità hacker. Però
l’affermarsi del copyleft come fenomeno culturale di massa ci invita (o forse ci obbliga) ad una seria
considerazione di tali critiche al modello tradizionale di diritto d’autore e precisamente a quello di origine
common law. Si deve anche tenere presente che posizioni come quella di Stallman non sono in assoluto le
più radicali, se ci riferiamo a tutto il movimento cyberpunk o no-copyright ‘votato’ alla totale
liberalizzazione del file-sharing e in certi casi anche della pirateria vera e propria. Invece, basta rifarsi a quanto detto sull’origine storica del concetto di copyleft in fatto di software, Stallman (e tutto il
movimento culturale da lui ispirato) non si esprime a favore di una totale eliminazione del copyright , il
quale,se usato correttamente e non abusato, è realmente il miglior incentivo per l’arte e la cultura; con buona
pace di tutti coloro che nella rivoluzione Opensource ha voluto vedere la “morte del copyright”.
Alcuni autori di dottrina giuridica hanno riflettuto approfonditamente sull’ipotesi di un mondo senza
diritto d’autore e di eventuali alternative per la tutela e la promozione della creatività, proprio alla luce delle
nuove esigenze e quindi dei diversi interessi (pubblici e privati) del mondo attuale. Capostipite di questa
scuola di pensiero, di matrice giuridica ma con ampie contaminazioni di sociologia, è Lawrence Lessig
(www.lessig.org), lo stesso giurista statunitense incontrato fra i fondatori di Creative Commons e che
attualmente siede anche fra i membri della Electronic Frontier Foundation; nel suo libro “Il futuro delle
idee” del 2001 prospetta i rischi che corre la collettività degli utenti in mondo interconnesso, il quale se da
un lato può rappresentare uno sterminato spettro di possibilità di espressione e comunicazione, dall’altro può
risolversi in un più invasivo controllo della creatività, se permangono le distorsioni e le rigidità
dell’impostazione attuale.
Un altro studio molto interessante e perspicace (e più strettamente di dottrina giuridica) sulla
ridefinizione dell’interesse pubblico come giustificazione del copyright è quello compiuto dal britannico
Gillian Davies nel libro appunto intitolato “Copyright and the public interest” edito nel 2002. Dopo aver
passato in rassegna, in un’ottica sia storica che comparatistica, il nesso fra tutela d’autore e interesse
pubblico nei principali ordinamenti occidentali (Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia, Germania), entra nel
merito delle rinnovate esigenze per la collettività derivanti dal nuovo contesto delle comunicazioni.
Per prima cosa Davies sottolinea che l’interesse personale dell’autore non è sufficiente di per sé per
attribuirgli dei diritti esclusivi; e successivamente fa notare che gran parte dei creativi non producono opere
principalmente per la prospettiva della retribuzione economica quanto piuttosto per uno spirito innato di
creatività, mirando più che altro ad un riconoscimento morale della loro reputazione d’autori . E’
necessario dunque affinché si applichi una tutela esclusiva sulle opere dell’ingegno che essa concorra
all’affermazione di un più ampio e generale interesse allo stimolo della produzione artistico-culturale e un
rafforzamento della sfera economica ed imprenditoriale a ciò connessa.
I dubbi fin qui prospettati sulla legittimità di un’applicazione troppo pervasiva del copyright si
condensano in un dilemma: nel panorama attuale, gli autori realizzano opere perché il copyright esiste oppure il copyrighy esiste perché gli autori realizzano opere?
Davies cerca di rispondere a tale inevitabile quesito ipotizzando il funzionamento dell’editoria e della
comunicazione in un mondo privo di copyright e avanzando alcune ipotesi per l’applicazione di tutele
alternative alle opere creative. L’alternativa più percorribile sarebbe quella di una sorta di ‘dominio pubblico
pagante’ nel quale sia lo Stato a retribuire lo sforzo creativo dell’autore mentre all’imprenditoria editoriale
competerebbe la realizzazione concreta delle iniziative editoriali. In questo modo, sarebbe possibile
incoraggiare la creatività non tanto prospettando la possibilità per l’autore di un futuro e solo eventuale
sfruttamento dell’opera; bensì sostenendo concretamente l’autore durante il lavoro di ricerca o di
realizzazione, attribuendo un ruolo fondamentale alle associazioni no-profit e agli istituti di ricerca . Inoltre
l’abolizione del copyright comporterebbe da un lato l’eliminazione dei costi per amministrare i diritti d’autore e per ottenere le relative licenze d’uso dell’opera; dall’altro si agevolerebbe così una contrattazione
diretta fra autori ed utenti, proprio come nel modello di copyleft.
L’autore, tuttavia, nella sua dissertazione ipotetica sviluppa successivamente alcune argomentazioni di carattere economico e pratico che fanno intuire quanto sarebbe rischioso un annullamento totale delle
prerogative esclusive dell’autore: innanzitutto i rischi (già accennati) sulla difficoltà di gestire in modo
efficace e certo i diritti in un modello di libera contrattazione autore-utente nel caso di grandi iniziative
editoriali con un target indefinito; poi il rischio che il valore di un’opera venga ridotto al puro costo della sua
realizzazione materiale, il che porterebbe ad un appiattimento delle variegate istanze creative e ad un loro
mancato (o comunque insufficiente) incentivo. D’altronde, come fa notare Ubertazzi, “comprimere il
diritto d’autore significherebbe far ingiustamente gravare su una particolare categoria di cittadini, e
precisamente sui creativi/autori, i costi della crescita dell’industria culturale di altri.” Quindi dobbiamo esprimerci più opportunamente e realisticamente per una soluzione compromissoria:
una situazione in cui possa essere rimarcata e ampliata la sfera d’influenza del fair use , in cui siano chiariti
e abbreviati i limiti di tempo per lo sfruttamento esclusivo dell’opera e soprattutto in cui sia l’autore il vero
gestore dei propri interessi.
Il principale aspetto che viene investito da tale inversione di
tendenza è il concetto d’interesse pubblico (o come alcuni preferiscono dire, d’interesse collettivo).
Partiamo da un principio cardine del diritto d’autore, relativo alla originaria ratio giuridica della tutela delle
opere dell’ingegno, così come enunciato da Auteri a proposito di libere utilizzazioni:
“[…]la tutela del diritto d’autore, trova la sua giustificazione ultima nell’interesse della
collettività alla promozione e alla diffusione della cultura e si estende fino al punto in cui è
giustificata e insieme compatibile con l’interesse generale alla diffusione delle conoscenze, delle
idee e delle opinioni, ma anche delle opere in cui quelle trovano espressione. La determinazione
del contenuto del diritto e dei suoi limiti rappresenta, secondo le valutazioni di politica
legislativa del momento storico, il punto di equilibrio fra l’interesse individuale dell’autore e gli
interessi generali.”
Come abbiamo visto in questo stesso capitolo e come d’altronde ricorda Auteri, nell’ambito del
diritto d’autore tradizionale il simbolico punto d’incontro fra gli interessi dell’autore e quelli della collettività
è ravvisabile nell’istituto delle libere utilizzazioni: una sorta di ‘zona franca’ in cui le limitazioni derivanti
dal diritto d’autore ‘si piegano’ ai legittimi interessi generali di incentivo del progresso scientifico e
culturale. Sottolinea infatti anche Niccolò Abriani: “Il diritto d’autore è del resto da sempre il frutto di un
intreccio dialettico e osmotico tra le prerogative accordate ai creatori delle opere e ai loro aventi causa, e i
diritti di libera utilizzazione riconosciuti alla collettività, dall’altro.” Tuttavia, in un universo digitale e multimediale in cui gran parte della dottrina vede radicarsi un vero e
proprio diritto ad essere informati (o diritto d’accesso alle informazioni), uno spiraglio così ristretto e – ricordiamolo – solo di tipo eccezionale risulta alquanto insufficiente a garantire l’agognato ‘equilibrio fra gli
interessi’.
Il principio degli equilibri fra interessi pubblici e privati è uno degli argomenti centrali di tutto il
diritto dell’informazione e trae le sue origini dal dibattito interpretativo della libertà d’espressione
costituzionalmente tutelata dall’art. 21 della Costituzione Italiana e dal Primo Emendamento della
Costituzione Statunitense. Tale libertà si estrinseca infatti in due riflessi paralleli e speculari che sono da
un lato il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e la propria creatività, quindi per estensione il
diritto ad informare la collettività; e dall’altro lato il diritto ad essere informati e quindi anche il diritto di
accesso all’informazione. Tali principi, radicati già nei principi filosofici dell’illuminismo, hanno però
trovato il loro habitat congeniale nell’attuale società dell’informazione e quindi, oggi più che mai,
necessitano una particolare attenzione da parte del mondo giuridico .
E’ giusto sottolineare che tali principi si riferiscono squisitamente all’ambito dell’informazione;
ambito che, pur intersecandosi per moltissimi aspetti con quello delle creazioni artistico-espressive, mantiene
una certa peculiarità rispetto al diritto d’autore. Tuttavia queste istanze ci devono far riflettere sulle
possibilità di rivisitazione del concetto d’interesse pubblico, anche in fatto di proprietà intellettuale,
soprattutto ora che il diffondersi della filosofia della libera distribuzione di idee e opere comporta un nuovo
inevitabile assetto degli equilibri.